LA RAFFINATA TRASGRESSIONE DI PAOLO SPINOLA

LA RAFFINATA TRASGRESSIONE DI PAOLO SPINOLA

Paolo Spinola (Genova, 1929 – Roma, 2005), regista, soggettista e sceneggiatore, entra nel cinema nel 1952.
Oggi dimenticato, è stato regista di quattro film raffinati dove i momenti di erotismo erano caratterizzati da una forte introspezione psicologica.

Fino al 1958 la sua attività principale è quella di aiuto regista di Gianni Franciolini: Il mondo le condanna (1952), Villa Borghese (1953), Racconti Romani (1955), Peccato di castità (1956), Racconti d’estate (1958). Collabora anche con Giorgio Capitani (Piscatore ’e Pusillipo, 1954), Luigi Comencini (La finestra sul Luna Park, 1956) e Riccardo Freda (Agguato a Tangeri, 1957, di cui è anche soggettista e sceneggiatore).

 

Le quattro regie di Paolo Spinola

L’esordio alla regia di Paolo Spinola è datato 1964 con un film che la critica reputa un piccolo capolavoro: La fuga. Protagonista Giovanna Ralli, conosciuta da Spinola sul set di Franciolini di Villa Borghese (1953).
Il promettente regista, purtroppo per il cinema italiano, realizza solo quattro pellicole d’autore, dal 1964 al 1977, caratterizzati da un accurato lavoro di introspezione psicologica dell’animo femminile.

Il secondo film, L’estate (1966), per il tema torbido del rapporto tra una figliastra sedicenne e un ricco industriale ebbe noie con la censura e un divieto ai minori.
La donna invisibile (1969), terza fatica, venne sequestrato dopo il primo giorno di proiezione e fermato per ben due mesi. La censura voleva il taglio di otto sequenze, a cominciare dai titoli di testa che vedono numerosi nudi parziali di Giovanna Ralli: circa venticinque minuti di materiale. Il film fu assolto con una sentenza storica che interpretava in maniera ampia il concetto di comune senso del pudore.

Paolo Spinola cura sempre il soggetto e può dirsi un autore, il suo quarto film è Un giorno alla fine d’ottobre (1977).
I temi portanti del suo cinema sono la descrizione critica dell’alta borghesia, ma anche un’attenta analisi di singolari figure femminili.

Abbiamo reperito una testimonianza di Paolo Spinola resa a Ester De Miro nel volume Genova in celluloide. I registi liguri (Comune di Genova, 1984), curato da Claudio Bertieri e Marco Salotti: “L’idea di fare cinema è nata per caso, come per molti altri: forse perché ero stato ad Alassio durante la guerra e lì avevo fatto amicizia con il figlio di Gino Cervi, che voleva andare a Roma per fare il produttore. Così mi sono lasciato coinvolgere e sono andato a Roma con lui. Ho iniziato la mia attività nel cinema come aiuto regista di Franciolini soprattutto, ma anche di Freda, Capitani, Comencini. […] In quel periodo facevo anche qualche sceneggiatura con Amidei e dei documentari. Poi con Gigi Malerba avevamo costituito una società pubblicitaria, facevamo degli short […]. Ho realizzato il primo film, La fuga, nel 1963: ho scritto io il soggetto e la sceneggiatura. L’interprete […] era Giovanna Ralli, una professionista perfetta, secondo me la prima attrice italiana per bravura: per questo film vinse anche il Nastro d’argento della stagione, come migliore attrice protagonista. L’estate è del 1966: anche questo film è nato da un mio soggetto, mentre la sceneggiatura l’ho scritta con Marco Ferreri. Veramente avevo fatto una prima sceneggiatura con Amidei, molto brutta… anzi bellissima sul piano dello spettacolo, ma non era quello che volevo fare io. […] Secondo me nel cinema moderno lo spettacolo deve nascere dall’osservazione della realtà. I conflitti non devono essere drammatizzati ed enfatizzati, ma devono scaturire con naturalezza. L’idea della storia mi era venuta dopo essere capitato con Amidei su una barca di alcuni amici […]. La parte maschile è stata […] affidata a Enrico Maria Salerno, che è bravo […]; per la parte della figlia ho trovato una ragazzina al Piper, Mita Medici, che non sapeva certo recitare, non aveva mai fatto niente, ma aveva un suo peso… aveva qualcosa… non aveva tecnica, ma la guardavi e bastava… non so, è difficile spiegare. Il 1969 è l’anno de La donna invisibile: l’ha prodotto la Clesi Cinematografica dopo il rifiuto di Enzo Doria al quale l’avevamo proposto […]. Per fare cinema l’importante è avere delle storie. Il guaio oggi è nei costi, che sono troppo alti, e per avere dei finanziamenti bisogna dare delle garanzia e rischiare di persona; un pittore, uno scrittore, usa la propria tela o la propria carta, fa il suo quadro o il suo libro e poi può venderlo o no, ma un film lo devi vendere prima… a essere sincero oggi non sarei disposto a investire soldi nel cinema”.

 

La fuga (1964)

Regia: Paolo Spinola. Soggetto: Paolo Spinola, Carla Conti. Sceneggiatura e Dialoghi: Sergio Amidei. Fotografia: Marcello Gatti. Montaggio: Nino Baragli. Collaborazione: prof. Piero Bellanova. Supervisione Scene e Costumi: Piero Gherardi. Arredamento e Scenografia: Nedo Azzini. Costumista: Marcella De Marchis. Operatore alla Macchina: Claudio Cirillo. Aiuto Regista: Piero Cristofani. Fonici: Pietro Vesperini, Franco Bassi. Musiche: Piero Piccioni. Edizioni Musicali: Cam spa. Canzoni: Topless (Peppino Di Capri), La tua stagione (Milva). Direttore Di Produzione: Gianni Di Stolfo. Collaboratore alla Produzione: Natalino Vicario. Produzione: Cine 3. Realizzazione. Vittorio Musy Glori, Alberto Casati, Mario Mariani. Pellicola: Dupont. Sviluppo e Stampa: Istituto Luce spa. Sincronizzazione: Fono Roma. Durata: 120’. Genere: Drammatico.
Interpreti: Giovanna Ralli, Anouk Aimée, Paul Guers, Enrico Maria Salerno, Jone Salinas Musu, Caroll Walker, Ignazio Dolce, Maurizio Arena, Guido Alberti.

LA RAFFINATA TRASGRESSIONE DI PAOLO SPINOLA
Piera è una donna affascinante, di famiglia ricca, che ha vissuto un’infanzia infelice per la separazione dei genitori, con una madre piena di giovani amanti e un padre farfallone. Vive a Roma, passa le vacanze in Toscana, all’Argentario, dove conosce Andrea (Guers) (un fisico nucleare appassionato del suo lavoro) e lo sposa convinta d’essere innamorata.
La figlia infelice diventa una moglie insoddisfatta e una madre che non si cura troppo del figlio, anzi, lo considera un fastidio. Piera ricorre alle cure di uno psicanalista (Salerno) che indaga nelle turbe del passato e intreccia una solida amicizia con una bella arredatrice (Aimée), ma fugge anche da lei quando scopre che il legame potrebbe avere un significato omosessuale. Finirà per suicidarsi, in fuga dall’amica, provocando un mortale incidente stradale.

La fuga è un intenso film psicologico che paga i suoi debiti di ispirazione con la poetica di Michelangelo Antonioni (Deserto rosso, ma anche L’avventura, per la figura femminile), Ingmar Bergman (le parti fantastiche) e Federico Fellini (i sogni, i flashback onirici). Paolo Spinola indaga l’animo femminile (aiutato da Carla Conti che collabora al soggetto), fustiga i costumi di una borghesia viziosa e annoiata, inserisce temi insoliti come psicanalisi (ricorrendo a un tecnico come il professor Bellanova) e audaci come l’omosessualità femminile, appena accennata ma sufficiente per un divieto in censura ai minori di anni 18.

Un film tecnicamente perfetto, girato con raffinatezza stilistica, fotografato da Gatti in un livido bianco e nero che diventa bianco latte, spettrale, durante le affascinanti parti oniriche, sceneggiato con cura da Amidei e interpretato alla grande da attori ben calati nelle interpretazioni. Giovanna Ralli è bravissima nei panni di una protagonista macerata da dubbi e indecisioni, repressa nella propria omosessualità, insoddisfatta come figlia, moglie e madre. Un ruolo da ricca borghese insolito per lei che fino a quel momento aveva recitato soltanto in parti da becera popolana.
Colonna sonora di Piero Piccioni, una vera e propria sinfonia al piano, con alcuni accenni di musica beat di gran voga nel periodo storico. Enrico Maria Salerno è perfetto come psicanalista professionale e sicuro delle proprie idee. Anouk Aimée (fresca interprete di 8 e mezzo di Fellini) sfoggia la consueta aria malinconica da donna fatale, per l’occasione dando vita a una fascinosa donna omosessuale.

La protagonista è in fuga dal suo passato, ma anche dal suo presente, in sostanza è in fuga dal suo inconscio che non comprende. Il film è narrato in flashback, il ritratto della donna emerge dal racconto che ne fanno due uomini, anche se la voce fuori campo è della Ralli e sembra una narrazione in prima persona. Il marito illustra la prima parte leggendo il diario della moglie, ritrovato nel camino, non ancora del tutto bruciato.
Lo psicanalista racconta il resto della vicenda scorrendo gli appunti delle sedute. La cosa migliore del film sono le parti oniriche, dotate di una fotografia soffusa, nebbiosa, i sogni felliniani, ma pure bergmaniani, di Piera alla stazione in attesa di un treno che finisce per perdere, che in un sogno successivo di trasforma in tram e vede la presenza di una madre burbera che rifiuta la figlia.

Un altro sogno fantastico vede Piera che immagina di fare la prostituta, di finire arrestata dopo una retata, di essere sadicamente punita a frustate. Il regista spiega psicanaliticamente i sogni come desiderio di viaggiare, compenetrato dalla paura di lunghi viaggi, ma anche come la voglia di diventare come le donne che ama il padre, per essere da lui amata. Silenzi intensi, sequenze poetiche di una Roma notturna e gelida, ma anche scene luminose del promontorio toscano, di un Argentario non ancora invaso dal turismo di massa, per finire con la costiera amalfitana. Molte sequenze sono girate a Porto Santo Stefano e nel braccio di mare antistante Punta Ala e Porto Ercole.

Un film psicologico, introspettivo che si compenetra al cinema fantastico, ma che diventa persino pellicola erotica in alcune sequenze che vedono le due donne sole nel bagno e in camera da letto. Il regista sfuma sempre al momento giusto, anche perché il rapporto omosessuale non giunge a compimento, neppure quando Piera lascia il marito. Indicativo il sogno dell’occhio che viene consegnato per vedere la realtà, ma la donna fugge ancora e si rifiuta di accettare una latente omosessualità.
Piera “non trova niente che la tenga legata alla vita”, soltanto fantasmi, è incapace di amare e decide di farla finita. Ottimo il finale sospeso con lo psicanalista che incontra il marito e decide di non confessare tutta la verità sull’omosessualità repressa della moglie.

Paolo Mereghetti (tre stelle) è entusiasta: “Un’opera prima audace per l’epoca, e forse non solo, con evidenti richiami all’Antonioni di Deserto rosso e, per qualche squarcio onirico, anche a Fellini. Ai classici temi esistenziali antonioniani (il profondo disagio affettivo, la coppia alienata in un matrimonio senza prospettive, la borghesia malata), Spinola ne aggiunge esplicitamente altri due, delicati e tuttora insoliti per il cinema italiano: la psicanalisi e l’omosessualità femminile. Un film interessante, pur con qualche inserto un po’ didascalico, che si avvale di una sceneggiatura ben calibrata, di tre attori indovinati e di una raffinatezza registica rara in un esordiente”.

Morando Morandini (tre stelle) conferma e ribadisce: “Uno degli esordi italiani più interessanti degli anni Sessanta, pur con evidenti debiti verso Antonioni e Fellini e qualche passaggio troppo didattico. Finezza di disegno psicologico, impeccabile direzione degli attori, attendibile descrizione di un ambiente borghese, pulizia di scrittura registica. Purtroppo il genovese Paolo Spinola non mantenne le promesse”.

Per una critica contemporanea leggiamo Giovanni Grazzini (Corriere della Sera, 1965): “Il film esce soltanto in parte dalle secche di un manualetto di psicanalisi applicato alle disavventure di una bella donna, ma Spinola mostra, là dove più conta, nei caratteri centrali, nell’ambientazione dei personaggi, nella sicurezza dell’inquadratura, qualità molto promettenti. E dunque sia il benvenuto in un cinema che ha tanto bisogno di freschi rincalzi” (da Roberto Poppi, “I film Italiani”).

Il critico Lino Micciché scrive: “Un altro caso che rimane alquanto isolato nel contesto del cinema italiano degli anni Sessanta è quello di Paolo Spinola, al quale si deve il miglior esordio del 1964: La fuga, film cui l’autore giunge trentacinquenne dopo un’attività pluriennale di aiuto-regista e di sceneggiatore. Primo lavoro cinematografico italiano che si basi esplicitamente e interamente su un tessuto psicoanalitico, La fuga (che è anche la migliore sceneggiatura scritta da Sergio Amidei negli anni Sessanta e la migliore interpretazione di Giovanna Ralli, che vinse il Nastro d’Argento della stagione, quale miglior attrice protagonista), propone la radiografia attenta e puntigliosa di una nevrosi: quella di Piera, una moglie tipica dell’Italia del benessere, sposa di un coniuge cui arride il successo sociale, protagonista di un ménage apparentemente senza grossi problemi. Il film, seguendo in parte la sintomatologia esterna della nevrosi, in parte rievocando dal lettino dello psicoanalista le sue manifestazioni simboliche e le sue cause rimosse, costruisce pezzo per pezzo l’itinerario di un disagio esistenziale che si concluderà drammaticamente, nonostante la cura psicoanalitica […]. Dicevamo disagio esistenziale, poiché nonostante il serio apparato scientifico del film […] tenda a definire in termini analitici tradizionali il quadro clinico, da esso sembra sortire un discorso più vicino al Laing dell’Io diviso che all’ortodossia freudiana. Ma lungi da essere un difetto, questo è indubbiamente il maggior merito dell’opera, assieme alla accortezza di un racconto eccellentemente organizzato attorno a una storia e a dei personaggi non banali”.

 

L’estate (1966)

Regia: Paolo Spinola. Soggetto: Paolo Spinola. Sceneggiatura: Raffaele Ascona (Rafael Azcona), Paolo Spinola. Fotografia: Marcello Gatti. Montaggio: Nino Baragli. Ambientazione e Costumi: Piero Gherardi. Aiuto Regista. Federico Chentres. Ispettore di Produzione: Sergio Nasca. Fonico: Fernando Pescetelli. Costumi: Brunetta Parmesan. Operatore alla Macchina: Alvaro Lanzoni. Organizzazione della Produzione: Vittorio Musy Glori. Produzione: Antonio Spinola per la 5 Ottobre Cinematografica spa. Colore: Technicolor. Musiche: Gianni Boncompagni (eseguite da The Pipers). Canzoni: Per quanto io ci provi (Rossi – Robifer, cantano The Motows), La mia Inghilterra (Nistri – Arden, cantano Mike Liddel e gli Atom), Che mondo strano (Migliacci, Modugno, Shapiro, cantano The Rokes), È la pioggia che va (Mogol, Lind, cantano The Rokes). Edizioni Musicali: RCA Italiana, Dischi Arc (The Rokes). Stabilimenti di Posa e Mezzi Tecnici: A.T.C.. Esterni: Porto Rotondo (Sardegna), Stabilimenti Società Terni. Registrazione e Sincronizzazione: Cinefonico Palatino. Mixage: Mario Morigi. Laboratorio e Sviluppo Stampa: Studio Cine (Roma).
Interpreti: Enrico Maria Salerno, Najda Tiller, Mita Medici (per la prima volta sullo schermo) Carlo Hinterman, Mita Cattaneo, Dino Zamboni, Mirella Pamphili, Gordon Mitchell (nella parte di se stesso).

LA RAFFINATA TRASGRESSIONE DI PAOLO SPINOLA

L’estate (1966) è un film caratterizzato da certe idee critiche del periodo storico, un’ambientazione alto borghese e un sottofondo di musica beat (curato da Gianni Boncompagni) che per il tema “torbido” e controcorrente non è facile dimenticare. L’antecedente letterario è Lolita di Nabokov, romanzo del 1955 portato sul grande schermo da Kubrick nel 1962, ma L’estate è più scabroso e meno rassicurante. Il tema portante è il triangolo amoroso, la passione di un uomo di mezza età per una ragazzina, complicata dal fatto che l’adolescente è la figliastra, considerata come una vera e proprio figlia.

Sergio (Salerno), un industriale annoiato, raggiunge la compagna Adriana (Tiller) a Porto Rotondo, in Sardegna, subito ci accorgiamo che le cose tra loro non vanno come un tempo, al punto che l’uomo medita di separarsi. Lisa (Medici) è la ragazzina che irrompe nella relazione pericolante, seduce il patrigno, con lui perde la verginità, salvando il suo futuro e quello della madre, impedendo la fine del rapporto.
Tema torbido in tutti i sensi, prima di tutto perché la figliastra ha sedici anni, poi perché non è l’uomo a sedurre la ragazzina ma il contrario (tema tipico della lolita) e soprattutto perché Lisa non agisce per amore o per passione, ma per freddo calcolo, per interesse, per salvare economicamente il suo futuro.

Il film racconta la crisi della famiglia borghese, già evidente nel 1966, con un protagonista separato che vive insieme a una compagna ma finisce a letto con la figliastra. Sottofondo di musica beat con pezzi dei Rokes, degli Atom e dei Pipers (eseguono la colonna sonora), con raffigurazione della netta separazione tra il mondo dei giovani e quello degli adulti. Sta arrivando il Sessantotto, il film lo anticipa con molte idee di contestazione al matrimonio e alle convenzioni sociali. Il personaggio interpretato magistralmente da Enrico Maria Salerno esprime la scarsa fiducia nel lavoro, la voglia di libertà, il bisogno di evadere, ma anche la crisi del quarantenne di fronte alla noia sartriana dell’esistenza.

Mita Medici è giovanissima, per la prima volta sullo schermo, direttamente dal Piper (locale alla moda romano), ha sedici anni come la protagonista che interpreta, per questo non viene mai inquadrata nuda e il regista stempera i momenti più erotici. Lolita straordinaria che Spinola sfrutta al meglio delle sue possibilità per un volto da ragazzina ingenua su un corpo che sprizza sensualità e malizia da tutti i pori. Forse la sequenza più erotica è quella del riccio di mare che punge il piede della ragazzina con l’uomo intento a succhiare il sangue della ferita. Brava anche l’austriaca Najda Tiller, molto attiva nel cinema italiano, ben calata nella parte della borghese altezzosa, amante tradita dalla figlia, che in un sordido finale accetta il nuovo status quo, per mero interesse.

Il regista documenta il cambiamento di un’epoca e narra la disillusione dell’Italia dopo il boom, immortala la Fiat 500, descrive l’entusiasmo per una fotocopiatrice, racconta la scoperta del sesso da parte degli adolescenti. Stigmatizza il tabù della verginità, l’altezzosità della ricca borghesia, i difficili rapporti tra coniugi, l’egoismo degli uomini, i discorsi vuoti e inconcludenti dei ricchi imprenditori.
Vizi privati e pubbliche virtù, attacco all’ipocrisia borghese, incomunicabilità generazionale e nella coppia, sono temi importanti di un piccolo film da riscoprire.

Tecnica di regia classica, panoramiche e primi piani, ambientazione e recitazione di impronta teatrale. Esterni girati in una Sardegna selvaggia, prima della speculazione edilizia e dello sfruttamento turistico, a bordo di uno yacht, tra le scogliere di Porto Rotondo e il mare incontaminato. Straordinaria la fotografia di Marcello Gatti, realizzata in un arcaico technicolor.
Ottima la ricostruzione di ambienti curata da Piero Gherardi. Lo sceneggiatore spagnolo Rafael Azcona (mentore di Marco Ferreri) viene italianizzato nei titoli in Raffaele Ascona. Gordon Mitchell compare in un breve cameo nella parte di se stesso.

Troppo duro il giudizio di Paolo Mereghetti (una stella): “Dramma del sentimento di una coppia anomala, ma il film nonostante il torbido soggetto non lascia traccia”.
Pino Farinotti assegna due stelle, puntando sul mondo borghese capace di scendere a patti con la morale pur di non perdere privilegi. Fernando di Leo deve molto alle suggestioni di questo film quando gira La seduzione (1972) con Jenny Tamburi, anche se la sua sceneggiatura proviene da un romanzo di Ercole Patti.

 

La donna invisibile (1969)

Regia: Paolo Spinola. Soggetto: Alberto Moravia (racconto La donna invisibile). Sceneggiatura: Dacia Maraini, Paolo Spinola, Ottavio Jemma (collaborazione). Fotografia: Silvano Ippoliti. Montaggio: Sergio Montanari. Costumi: Gaia Rossetti Romanini. Scenografia e Arredamento: Filippo Perego. Operatore alla Macchina: Enrico Sasso. Tecnico del Suono: Fiorenzo Magli. Aiuto Regista: Renata Melingò. Fotografo: Mario Mazzoni. Musiche: Ennio Morricone. Direzione Musiche: Bruno Nicolai. Edizioni Musicali: General Music. Organizzazione Generale: Mario Silvestri. Produzione: Clesi Cinematografica – San Marco. Produttore: Silvio Clementelli. Distribuzione: Euro International Film. Pellicola: Eastmancolor. Colore: Colorscope della Spes diretta da E. Catalucci. Teatri di Posa: Incir – De Paolis. Durata: 92’. Genere: Drammatico. Menzione Speciale della Critica al Festival di Taormina (1969).
Interpreti: Giovanna Ralli, Carla Gravina, Silvano Tranquilli, Anita Sanders, Gigi Rizzi, Raul Martinez, Elena Persiani, Franca Sciutto, Gino Cassani.


Laura (Ralli) si sente trascurata dal marito Andrea (Tranquilli), contestato professore universitario, sembra quasi che per lui non esista, una vera e propria donna invisibile, persino quando confessa il suo tradimento con il capo degli studenti agitatori.
La misteriosa Delfina (Gravina) – non si sa perché – vive con la coppia, ed è una presenza forte e disinibita che affascina Andrea.
Nel finale, durante una battuta di caccia, il marito uccide la moglie, non si rende conto dell’accaduto e se ne va con Delfina, chiamandola Laura.
Il racconto di Moravia da cui parte la sceneggiatura “è così misterioso che non ci capisco niente neppure io”, disse l’autore.

Non si può raccontare in termini razionali un lavoro psicologico-metaforico, parente stretto del cinema di Ferreri e Antonioni, ma anche di Visconti, per ricercatezza formale e intellettuale. La storia parla di un triangolo amoroso in una famiglia borghese, di una coppia in crisi, di un marito che si porta l’amante in casa trascurando la moglie e di un gruppo di amici borghesi, annoiati e inutili, che vivono una vita vuota composta di tradimenti e piccole trasgressioni.
In realtà la donna che vive con la coppia in crisi non esiste, è soltanto il doppio psicologico della moglie, il carattere che vorrebbe per suscitare ancora interessante in un marito annoiato.

Laura è introversa e repressa per quanto l’altra figura femminile è aperta e solare, le attenzioni del marito sono tutte per lei, che consiglia alla moglie come vestirsi, truccarsi e pettinarsi per piacere al compagno. Finale fantastico, non spiegabile in maniera razionale, con Laura uccisa da marito e amante durante un simulato incidente di caccia. Fuor di metafora sarebbe la moglie libera da inibizioni che riesce a vivere accanto al marito senza repressioni. Emblematico il fantasma di Laura che si stacca dal corpo senza vita e si allontana nella macchia mentre sullo schermo campeggia la parola fine.

La donna invisibile è un film psicologico, che tratteggia ancora una volta una figura complessa di donna, dopo i ritratti ricchi di sfaccettature che il regista aveva regalato con La fuga e L’estate. Paolo Spinola si ritaglia un posto nel cinema d’autore, nonostante le poche pellicole in carriera, come indagatore dei vizi borghesi e dell’animo femminile. In questo caso è aiutato da un racconto simbolico di Alberto Moravia e da una sceneggiatura di taglio fantastico scritta da Dacia Maraini con la collaborazione di Ottavio Jemma.

Interessanti alcune parti erotiche che impongono un divieto ai minori di anni 18 alla solerte censura del tempo, attenta più ai messaggi sovversivi e poco rassicuranti che ai centimetri di pelle esposta. In ogni caso Giovanna Ralli è stupenda nelle sequenze iniziali che la ritraggono in una sorta di strip-tease utile a far capire quanto sia invisibile agli occhi di un marito che nota una macchia sulla parete ma non il suo corpo nudo.
Un altra sequenza erotica vede la Ralli sdraiata sul tavolo di cucina, mentre il marito con un coltello in mano taglia i lacci del reggiseno e Delfina le sfila le mutandine.

Carla Gravina non è da meno, mostrando le lunghe gambe e amoreggiando con Tranquilli in una sequenza che forse è soltanto onirica, immaginata dalla moglie. Anita Sanders mostra il seno in rapide sequenze di nudo e dà vita alla borghese senza inibizioni che tradisce il marito e lo lascia libero di fare altrettanto.
Datata la parte politico-sociale con il ritratto dello studente ricco che fa il contestatore e si porta a letto la moglie del professore.

Il clima del 1968 si sente ed è ben riprodotto, tra contestazioni alla Scala di Milano e nelle aule scolastiche, ma è interessante solo come reperto di un’epoca e di un cambiamento che cominciava a farsi strada.
Colonna sonora suadente e orecchiabile di Morricone, dal taglio sinfonico, note struggenti di piano che accompagnano un dramma interiore. Per la prima volta fotografia a colori in un film di Spinola, curata senza sbavature da Silvano Ippoliti, ma erano più convincenti gli intensi bianco e nero dei lavori precedenti.

Tecnica di regia classica ed elegante, tra primi piani, panoramiche, decisi piani sequenza, lunghi silenzi e giochi di sguardi, accompagnata da una ferma direzione di ottimi attori. Il personaggio più complesso, quello che interessa al regista, è caratterizzato da Giovanna Ralli che sfoggia una delle sue interpretazioni migliori.
Carla Gravina è altrettanto brava nei panni del suo doppio trasgressivo e disinibito, mentre sono meno importanti un decorativo Silvano Tranquilli e la bella Anita Sanders. Temi fondamentali dal taglio antonioniano: crisi del matrimonio, incomunicabilità tra marito e moglie, vizi della borghesia, un pizzico di femminismo e un erotismo torbido che permea tutta la storia.

Interpretazione autentica del regista: “Questo non è un film. Non come tutti gli altri, almeno. Si tratta di una storia misteriosa: il mistero mi affascina e a un fatto misterioso e affascinante non si chiedono né si possono dare delle spiegazioni. La donna invisibile: questo è il titolo del film. Però questo non significa che questa donna sia davvero invisibile. Infatti si vede, non solo, ma vive la sua vita, compie delle azioni tangibili, ciononostante, non esiste. Non esiste agli occhi del marito, non esiste per gli altri i quali non si accorgono che lei è lì, presente, insieme a loro. […] Diciamo […] che i personaggi femminili sono tre. Ma potrebbero essere anche due in quanto, un personaggio, quello interpretato dalla Gravina, non sono certo che esiste nella realtà. […] La donna invisibile esiste. Il marito non la vede ma esiste. Gli altri personaggi non la vedono ma esiste. Anche se, poi, diventerà inesistente, ma questo è un fatto misterioso, e io avverto la necessità di introdurre un elemento nuovo nel cinema italiano. La realtà sempre ai confini con l’irrealtà, fatti, cose, persone che diventano invisibili, irreali, che esistono e che non esistono, tutto questo è a mio parere assolutamente avvincente e convincente. Al punto tale che, a volte, mi chiedo se io stesso esisto veramente”.

Un’altra critica interessante: “Occorre subito riconoscere a Spinola una cifra di eleganza (non solo decorativa, ma intellettuale) che, come lo stesso autore aveva già dimostrato nei suoi due film precedenti, La fuga e L’estate, forse trova un solo paragone con Luchino Visconti nel fatto di esprimersi con aderenza perfetta e persuasiva in quegli ambienti dell’alta borghesia (lombarda, nella fattispecie) dove tanti altri nostri registi, come si sa, usano goffamente inciampare. Silvano Tranquilli, Anita Sanders e gli altri hanno una voluta genericità di tipi esemplari di un ambiente. L’interpretazione si concentra nel doppio aspetto della donna protagonista: che da una parte ha la sfumata e sottile inquietudine, la tristezza, il senso della sconfitta, che si riflettono nelle sensibilissime espressioni (e nei bellissimi occhi) di Giovanna Ralli, mentre dall’altra parte trova nel temperamento schietto e autentico di Carla Gravina un’acuta nervosità di tratto e una notevole ricchezza d’impulsi e di vibrazioni” (Guglielmino).

Paolo Mereghetti concede due stelle: “Il regista, Ottavio Jemma e Dacia Maraini adattano un racconto di Alberto Moravia, che dall’ovvia allegoria femminista sullo sfascio della coppia vorrebbe trapassare nel fantastico psicologico. Lambiccato, datato nelle annotazioni sociologiche (impagabile lo studente contestatore che vive in una casa lussuosa) ma dotato del fascino del reperto d’epoca, spia di un mondo che stava cambiando e di un cinema che cercava – sia pure in modo velleitario – nuove strade. Le musiche di Ennio Morricone sembra di averle sentite cento volte, ma sono belle”.

Morando Morandini concede due stelle, ma non motiva. Conferma il giudizio Pino Farinotti: “Fumosa storia, con finale tragico, di una crisi coniugale, nata dal conflitto interiore della protagonista tra come si vede nella realtà e come invece vorrebbe essere”. Una critica contemporanea, reperita su “I Film Italiani” di Poppi – Pecorari: “La paradossale situazione suggerita da un racconto di Moravia, è il punto di partenza della storia di una crisi coniugale narrata attraverso continui scambi tra verità oggettiva e verità soggettiva, le quali si confondono e si contraddicono in un’ambigua e suggestiva dialettica piena di insidie e di interrogativi” (D. Meccoli, Epoca del 14/12/1969).

 

Un giorno alla fine di ottobre (1977)

Regia: Paolo Spinola. Soggetto: Paolo Spinola. Sceneggiatura: Poalo Spinola, Carlo Castellaneta. Musiche: Daniele Patucchi. Edizioni Musicali: Cam (Roma). Fotografia: Aldo Di Marcantonio. Scenografia: Carmelo Patrono. Montaggio: Vincenzo Verdecchi. Direttore di Produzione: Claudio Biondi. Aiuto Regista: Fritz Golner. Fonico: Ivo Morbidelli. Assistente Operatore: Sandro Battaglia. Doppiaggio: Sincrovox, diretto da Emilio Cigoli. Distribuzione: INC – Italnoleggio Cinematografico. Produzione: Bruno Ridolf. Casa di Produzione: Co. M. E. C.. Teatri di Posa, Colore, Suono: Cinecittà.
Interpreti: Al Cliver (Pier Luigi Conti), Annie Belle, Mariangela Giordano, Violetta Chiarini, Livia Cerini, Filippo Panseca.

Paolo Spinola conclude la sua attività di regista con Un giorno alla fine di ottobre, scritto nel 1969 (in piena contestazione studentesca) ma girato soltanto alcuni anni dopo ed entrato in distribuzione nel 1977, quando i problemi erano altri, si parlava di terrorismo, più che di scontri di piazza tra polizia ed extraparlamentari, tra studenti e forze dell’ordine.

Un giorno alla fine di ottobre è comunque, al momento in cui scriviamo, il più raro e invedibile film di Spinola, al punto che ci siamo dovuti accontentare di un riversamento Dvd da Vhs di una edizione doppiata in lingua spagnola. Il film non guadagna dal pessimo doppiaggio iberico, perché sentire Al Cliver e Annie Belle esprimersi in un forbito spagnolo da Real Accademia non aiuta lo svilupparsi della storia e l’immedesimazione nella tematica contestatrice. Tra l’altro la solerte censura iberica concede il visto del Ministero della Cultura (numero 15861) sconsigliando la visione ai minori di anni 13.

Film sessantottino, dunque, ma in definitiva storia d’amore e politica del ’77, ché gli scontri di piazza non mancano neppure in quel periodo. Al Cliver è Lorenzo, dirigente in carriera alla Montedison di Milano, non troppo convinto del ruolo, innamorato della vita e delle belle donne. Mariangela Giordano è la segretaria-amante, che vede per lui un futuro radioso in azienda, vorrebbe sposarlo e intanto lo presenta ai genitori borghesi.

Annie Belle è Cristina, la variabile impazzita, la ragazzina (figlia di borghesi) pervasa da idee contestatrici inculcate da un fratello finito in galera per aver compiuto espropri proletari. Lorenzo si innamora perdutamente di Cristina, dopo aver trascurato un’altra possibile conquista (Livia Cerini) e soprattutto il lavoro, ma la ragazza concede solo una notte d’amore in albergo, quindi si nega e si ritira nella solitudine della famiglia. Finale scontato con Al Cliver che corre nella notte a bordo di una moto, non rispetta uno stop e si schianta a gran velocità sulla fiancata di un camion.

Paolo Spinola è un buon regista e anche questa storia presenta alcuni motivi di interesse, anche se resta il prodotto meno originale tra i suoi quattro lavori.
Da un punto di vista tecnico abbiamo un intelligente uso del flashback, diversi split screen a tendina, insolite dissolvenze e persino una parte girata come se Al Cliver e Annie Belle fossero due personaggi dei cartoni animati. Fotografia autunnale con toni che tendono al giallo ocra, visione di una Milano grigia e nebbiosa, tra parchi gelidi e traffico cittadino, metropolitane affollate e primi cartelloni pubblicitari invasivi. Colonna sonora suadente, romantica, con toni di tromba e pianoforte. Impostazione teatrale, dialoghi lunghi e forbiti, a tratti grondanti retorica, infarciti di accuse e contestazione nei confronti di un sistema marcio e consumista.

Si sente la mano di Carlo Castellaneta (1930-2013) nella scrittura del testo e nella sceneggiatura, soprattutto l’influenza del romanzo Notti e nebbie (1975) da cui fu tratta una miniserie televisiva, diretta da Marco Tullio Giordana, ambientata a Milano.
Al Cliver interpreta un ruolo insolito, da seduttore borghese pentito, mostra persino un nudo integrale dopo una doccia (forse in polemica con la commedia sexy che inflaziona il mercato di docce femminili) e interpreta alcune sequenze erotiche con la seducente Annie Belle.

Commedia sviluppata secondo toni grotteschi: l’incontro con la ragazza per aver risposto a una chiamata taxi, l’intervista surreale sul traffico cittadino, i momenti di vita in fabbrica… Non mancano elementi drammatici, caratterizzati da attenzione sociale, come sequenze di scontri tra polizia e studenti, immagini d’epoca miscelate con sequenze di fiction, oltre a una violenta aggressione di teppisti a una coppia che sta passeggiando. Un po’ datata la filippica antiborghese, portata avanti da una ragazzina che più borghese non si può, ma intrisa di idee contestatrici.

Da ricordare la partecipazione dell’artista Filippo Panseca, nella parte di se stesso, che spiega il suo modo di fare pittura in funzione anticonsumistica e anticapitalistica. Film politico, dunque, forse il solo film politico di Spinola, che nei precedenti si era limitato ad analizzare introspettivamente complesse figure femminili in conflitto con la società. Pure qui il personaggio più interessante è caratterizzato da Annie Belle, ma la sua figura femminile risente di troppi cliché del periodo storico (è una ribelle anticonformista di maniera) ed è meno originale rispetto ai ritratti precedenti messi in campo da Spinola.
Per aggiungere retorica al già visto abbiamo la figura di un aristocratico annoiato, invaghito della ragazza, ma impregnato di tendenze autodistruttive.

In definitiva troppi i cliché espressi da Spinola per essere accettati: la ragazzina ribelle e rivoluzionaria figlia di buona famiglia, l’aristocratico corrotto che sente il peso della fine di un’epoca, il borghese che accetta la società ma va in crisi per colpa della ragazzina. La storia d’amore tra un borghese integrato e un’aspirante rivoluzionaria finisce con il suicidio e con il crollo delle certezze, come regola impone e come sceneggiatura prevedibile pedissequamente tratteggia. Pieno di difetti, certo, ma a suo modo interessante, da vedere come documento di un periodo storico.

La critica non è tenera. Paolo Mereghetti (una stella): “Il quarto e ultimo film del cineasta ligure, scritto con Carlo Castellaneta e ideato una decina d’anni prima, arrivò ormai fuori tempo, nell’indifferenza generale, e patisce anche una confezione e una recitazione inadeguata. Risulta interessante solo per alcune immagini di repertorio del Movimento Studentesco”.

Morando Morandini concede due stelle ma non spreca un rigo di motivazione.
Pino Farinotti conferma le due stelle (in sostanza condivisibili) ma si limita a un racconto sommario della trama.
Il più entusiasta è Marco Giusti (Stracult): “77-movie di Paolo Spinola, interpretato da Al Cliver e Annie Belle, coppia anche nella vita, allora. Il film che Annie Belle ricorda con maggior piacere, perché si sentiva molto vicina al suo personaggio. Ebbe anche il premio San Valentino. Da ritrovare assolutamente”. Noi abbiamo seguito il consiglio.

 

Gordiano Lupi, autore dell’articolo, ha scritto “Gloria Guida, Il sogno biondo di una generazione”, La cineteca di Caino

 

 

 

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